‘Stiamo finendo in mano agli usurai’. Il futuro della ristorazione secondo Fipe

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Proprio mentre stavo scrivendo l’articolo sul Covid-Book di una catena di ristoranti a Hong Kong che stava tratteggiando le prime indicazioni da seguire nei ristoranti post-coronavirus, alla commissione della Camera dei Deputati il presidente di Fipe Roberto Calugi stava lanciando un accorato appello da parte di tutto il settore dell’ospitalità (qui il video). La Federazione Italiana Pubblici Esercizi è la più grande associazione di imprese della ristorazione e intrattenimento del paese, più di centomila iscritti e di conseguenza una discreta conoscenza dello stato delle cose e dell’efficacia dei provvedimenti presi dal governo in seguito al lockdown. Il suo intervento in commissione, 15 minuti strazianti per chi abbia a cuore la ristorazione italiana, è la fotografia di un fallimento. Ho deciso di parlarne con Matteo Musacci, uno dei vicepresidenti nazionali della federazione.

 

Matteo, come si assaggia un sugo con la mascherina?

Eh.

 

Non volevo metterti in difficoltà, è solo una provocazione.

È chiaro che nessun cuoco, o almeno si spera, si sogna di assaggiare un sugo con il mestolone che poi rimette nella pentola. Però questa è una delle poche cose che non possiamo controllare.

 

Cos’è che invece possiamo controllare?

Beh, tutto il resto. Il distanziamento delle persone, e non dei tavoli, all’interno del ristorante. I tavoli non si infettano, sono le persone che devono stare distanti. I menù, per cui stiamo fortemente spingendo verso una digitalizzazione. Certi locali, come Buns a Verona, li hanno già caricati su instagram, così il cliente deve toccare solo il cellulare. Altrimenti i menù ‘tradizionali’ andranno plastificati e disinfettati dopo ogni utilizzo. Bisognerà far sparire i condimenti al tavolo, sale pepe e olio per intenderci, e la zuccheriera dal bancone del bar. Pensiamo pure alla stagione invernale, ad esempio i guardaroba non andranno utilizzati, sappiamo che il virus può restare sulle superfici fino a 9 giorni. Abbiamo provato a pensare a tutto.

 

In che senso?

Abbiamo redatto un Protocollo di sicurezza Covid per le aziende del comparto della ristorazione, 37 pagine con una corposa appendice scentifica. Ci abbiamo lavorato assieme alla Virologia delle Spallanzani, perchè noi sappiamo come funziona il nostro lavoro, e loro sanno come funziona la scienza. Non possiamo permettere che, per temi così gravi e allo stesso tempo tecnici, decida qualcuno digiuno di entrambi gli argomenti. Per questo l’abbiamo sottoposto al Governo: nella speranza che diventi il modello per tutte le normative sul settore.

 

Anche perchè non mi sembra che le decisioni prese finora tengano conto della specificità del settore.

Tutt’altro. Non che non comprendiamo gli sforzi fatti dal governo, questo dev’esser chiaro, però non possiamo non dire che siano stati mirati o efficaci, anzi. La cassa integrazione in deroga non è arrivata a nessuno, in Lombardia ad esempio è stata erogata a poco più di 40 aziende. I dipendenti campano ancora con lo stipendio della prima settimana di marzo, e siamo a maggio. Oltretutto scadrebbe proprio in questi giorni: ma se non riapriamo prima di giugno, come facciamo a pagare i lavoratori? Chiediamo che venga sbloccata subito e prorogata, anche perché nessuno di noi si illude che il lavoro possa riprendere come prima, sia per le limitazioni ai coperti sia per l’assenza di turismo. Altrimenti abbiamo proposto una decontribuzione totale del lavoro. Le tasse sulla busta paga sono più alte di quello che si mette in tasca un dipendente, assurdo.

 

E i 600 euro?

Chi li ha ricevuti, e sono pochi, li tiene per pagare i debiti. Non finiscono realmente in tasca a nessuno. Così come i 25.000 euro di prestito garantito. Li ha ricevuti l’1,4% delle aziende nel nostro campione statistico. Anche quelli, comunque, li useranno per pagare le tasse, mica per coprire le perdite. Le scadenze fiscali non sono sparite, ma solo prorogate a fine maggio. Che poi, come si può pensare che il piccolo bar di paese abbia la stessa necessità di un ristorante da trecento coperti? Noi infatti abbiamo chiesto un contributo a fondo perduto basato sui corrispettivi elettronici. Lo stato sa tutto di noi, sa benissimo quanto ognuno di noi abbia perso. Non vogliamo assistenzialismo e tantomeno dare spazio ai furbi, ma solo un aiuto concreto. Altrimenti rischiamo di doverlo chiedere agli altri. Tipo agli usurai.

 

È un fenomeno in aumento?

In maniera impressionante, nel centro della Sicilia ma anche altrove. E non solo strozzini di provincia, ma anche quelli con una sede, insegna luminosa e brochure. Tanti nostri associati ci hanno fatto sapere di esser stati costretti a ricorrere all’usura, anche in zone dove magari i contagi sono a 0 da giorni. Quindi perchè in questi posti non si può riaprire prima che altrove? Così facciamo il gioco delle mafie. Che non sono solo al sud

 

Tu, personalmente, riapriresti a cuor leggero?

Per niente. Aprire ci fa tanta paura quanto restar chiusi. Ma noi ristoratori non siamo ricchi, non ci si arricchisce con un ristorante, tranne in pochissimi casi. Non vedrai chef con belle macchine o che acquistano appartamenti. Qui il massimo della patrimonializzazione è comprarsi le mura del proprio locale. Ed è l’obiettivo di tutta una vita. L’Italia non è l’Inghilterra, dove anche il pub di periferia fa parte di una multinazionale del beverage. Le nostre sono aziende familiari, come la nostra società è familiare. Per questo da noi pesa più che altrove. E perdere le nostre trattorie, agriturismi, bar di paese significa perdere una parte unica del nostro modo di vivere. Infatti alcune misure che abbiamo proposto, come la gratuità dell’occupazione del suolo pubblico (come ha fatto la Raggi a Roma, ad esempio), vanno proprio in questa direzione. Ripensare un modello di città post-coronavirus, con molti più tavoli all’aperto, molto più sicuri di quelli al chiuso, tante vie pedonali, più spazio tra le persone. Non pensiamo solo a noi stessi.

 

Quindi niente plexiglass?

Ecco vedi, quella è una bella storia. L’idea del plexiglass tra i tavoli nasce dalla stampa e dalle aziende che producono plexiglass. La cosa ha occupato il dibattito pubblico, i ristoratori si sono preoccupati e molti li hanno acquistati, ma probabilmente non ne avranno bisogno e sarà stato un investimento oneroso e inutile. Nel nostro protocollo noi proponiamo divisori in plexiglass per i locali che abbiano un punto cassa con un dipendente dedicato e un alto flusso di persone, come in autogrill. Immaginiamo anche che ce ne possa essere qualcuno a disposizione di chi ne fa richiesta, magari per i pranzi di lavoro tra persone che non si conoscono, ma non vogliamo che sia obbligatorio. Molto più importante sanificare i filtri dell’aria condizionata ed eliminare il ricircolo dell’aria, come emerge da quel famoso studio cinese.

 

In Cina misurano la temperatura a tutti i clienti, però.

In Cina non hanno le nostre leggi sulla privacy, rigorosissime. Dovrà essere obbligatorio per dipendenti e fornitori, ma per i clienti possiamo solo consigliarlo. Molti comunque si stanno già muovendo in questa direzione, dall’acquisto di Termoscanner a semplici termometri a infrarossi che online si comprano con 50 euro. La temperatura, tuttavia, potrà essere solo rilevata, ma non registrata. È un dato sensibile che ci si può rifiutare di concedere. Per questo sarà più facile ricorrere ad autocertificazioni dei clienti sul proprio stato di salute.

 

I clienti torneranno?

Io credo di sì, soprattutto i giovani. Ma perché accada è necessario raccontare, comunicare, parlare il più possibile. Il ristorante post-Covid nell’immaginario collettivo, ad ora, è un posto pericoloso, tetro, scomodo. Noi dobbiamo mostrare che, con tutte le precauzioni che intendiamo adottare, sarà sicuro tornare a mangiare fuori. E che sarà bello anche se sarà diverso. Perché una cosa certa è che cambierà tutto.

 

Cosa cambierà?

Cambierà il modello di ristorazione. Spariranno le grandi cantine, i menù infiniti. Per non aumentare i prezzi, visto che i posti a sedere saranno molti meno, dovremo abbassare i costi delle materie prime ma non abbassando la qualità. Semplicemente scegliendone di meno costose. La ristorazione va in questa direzione da tempo, sostituendo il tonno con lo sgombro, il filetto con la trippa. Spariranno forse i buffet, sostituiti da proposte mirate per l’aperitivo: non possiamo più permetterci di sprecare cibo. E vorrei che lo acquistassimo dall’artigiano, dal pescatore cittadino, dal macellaio di quartiere, dall’azienda vinicola di campagna. Per lo meno, è quello che farò nel mio locale (Apelle, un gastropub in centro a Ferrara). Vincerà chi saprà instaurare un nuovo rapporto di trasparenza con il cliente.

 

E chi perderà?

Gli improvvisati. Quelli con un’importante situazione debitoria. Quelli che partivano da molto poco. Ma non penso che fallirà la trattoria, soppiantata dal ristorante giapponese. In Italia uscire a pranzo e a cena non è solo mangiare qualcosa che non sai prepararti a casa. È un momento di socialità unico al mondo. Faremo di tutto per non perderlo.

 

Immagine di copertina: https://modernrestaurantmanagement.com