Veline o sfogline? Così un’osteria ha rotto Instagram

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‘Abbiamo guidato due ore, trascinandoci i bagagli dal porto di Civitavecchia a Roma, solo per mangiare all’Osteria da Fortunata’. Ovvero quando due signore che fanno la pasta fresca in vetrina trasformano una vecchia trattoria nel feticcio di Instagram. 

Piove su Campo de’ fiori, piove sui volti silvani dei cingalesi che vendono “preparato per carbonara bianca”, sulle mani ignude dell’egiziano che con battute da cabaret anni ’80 spiega perché sia necessario ‘svuotare la patata, prima di inserire la zucchina’, ovviamente con l’apposito utensile in offerta a euro tre, che ieri m’illuse, che oggi t’illude (che possa davvero funzionare), o turista americano. Ce ne sono tanti, in questo sabato dannunziano, e molti stanno presso l’angolo nord della piazza, in attesa che spiova per poter rimpolpare la coda che ogni giorno si forma fuori dall’Osteria di Fortunata. Gli altri ristoranti, a dire la verità molti, attorno al mercato non sembrano riscuotere molta attrattiva, neppure un ristorante a venti metri, che pure vanta un bel po’ di adesivi tra cui quello prestigioso di Slow Food, registra il tutto esaurito, mentre per sedersi in una delle due location di Fortunata, una di fronte all’altra, bisogna aspettare sotto l’ombrello.

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Ore 15: la pioggia è finita, la coda per entrare ancora no

L’Osteria da Fortunata, a dar retta alle centinaia di youtuber americani che ne parlano nei loro video (alcuni con milioni di visualizzazioni) è IL posto in cui mangiare a Roma. I tag su Instagram si sprecano, decine ogni giorno, e i piatti color terracotta con il nome del ristorante scritto a china sono lo sfondo di centinaia di foto di carbonare, gricie, amatriciane. Il personale, molto gentile e professionale nel gestire un flusso umano così potente, ci fa accomodare, ordiniamo uno strozzaprete alla carbonara e una tagliatella al ragù, li aspettiamo meno di una mezz’oretta, mangiamo una pasta un po’ troppo soda, forse cotta un paio di minuti in meno del previsto per la necessità di nutrire una sala di cento persone stipate una a fianco all’altra, ma comunque di buona fattura, generosamente condita (anche se il ragù sembrava quello in fondo alla pentola, un po’ troppo secco). Una buona carbonara (nella media romana, va detto), un buonissimo tiramisù, due caffè alla moka, due calici di vino generico, un acqua. 54 euro. Un sette non glie lo toglie nessuno, per carità, anche perché le trappole per turisti sono altre. Qui il cibo è fatto in casa e non ci sono ‘spaguetti marinara’ in vista. Però, dal momento che parliamo di Roma,  la domanda viene spontanea: perché stanno tutti in fila per un sette?

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Secondo questo canale Youtube da 1 milione e mezzo di iscritti, l’Osteria da Fortunata è il miglior ristorante di pasta a Roma. A lato influencer, blogger, turisti da centinaia di migliaia di follower: tutti lì!

Perché in vetrina, da Fortunata, ci stanno due signore che fanno la pasta fresca. Tutto il giorno dall’apertura a chiusura, sfornano decine di chili di tagliolini, fettuccine, sciavatelli (che poi sono cavatelli), gnocchi, ravioli, strozzapreti. Ricevono in continuazione vasche piene d’impasto a cui dar forma su un’enorme spianata coperta di semola. Vengono osservate, additate, fotografate, e se non ci fosse un tavolo davanti al vetro che le separa dalla veranda li vedremmo lì, gli avventori in attesa di sedersi, appiccicati alla finestra come bambini al negozio di giocattoli. Dicono Italia, casa, tradizione, nonna, sfoglina, come una ventina d’anni fa, e ancora oggi in tutto il mondo, dicevamo spaghetti e mandolino, con una treccia d’aglio sull’uscio e i peperoni ad essiccare appesi sul bancone, che poi erano secchi già da vent’anni. La sfoglina in vetrina è il nuovo, potentissimo strumento di marketing per comunicare la propria veracità, la propria autenticità. Insomma, la propria italianità. E i social non stanno a guardare.

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Le pastaie all’opera incessante. La pasta del ristorante, a onor del vero, sembra passare tutta per le loro mani

O meglio sì, stanno proprio a guardare. Mentre fotografano, riprendono, rilanciano questo spirito del luogo ai quattro angoli del globo da cui poi, a frotte, tornano utenti affamati, più che di un buon tonnarello cacio e pepe, di essere protagonisti di questa scena di un film di Woody Allen. Le pastaie in vetrina diventano un modello aspirazionale non tanto perché vorremmo essere loro, ma perché vorremmo essere con loro, in questo paesello con una chiesa e un bar dove le porte delle case sono consunte tende di perline di plastica, dove la nonna cucina e la sera è tutto un ‘mamma, mamma!’, un forno a legna e una fisarmonica che anima la piazza illuminata dai lampioni. E se una volta ambivamo a mangiare con i vip, con il jet set, con le veline sorridenti nelle foto assieme al gestore, oggi vogliamo mangiare con le sfogline. Senza che, nel frattempo, sia cambiato nulla: né la qualità del cibo, né tantomeno il motivo per cui lo facciamo.

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Un milione di follower, la stessa ossessione: sfogline e pasta fresca come ‘autentica esperienza italiana’

I ristoranti con la sfoglina non sono ancora un fenomeno diffuso come le pokerie a Milano, per dire, ma sono in crescita. A Roma c’è il Marchese, aperto meno poco più di un anno fa a immagine e somiglianza di Instagram, che serve l’amatriciana in padella (non quella in cui si è cucinato eh, sia chiaro) ed ha la sua signora munita di Imperia affacciata al marciapiede. Da Bologna arriva Bottega Portici, un franchising di pasta fresca che dal 2017 ha saputo aprire già 5 nuovi punti vendita, di cui uno a Roma e uno a Milano. La sfoglina, ovviamente, è sempre in vetrina. E anche se da Miscusi, la ‘catena’ di ristoranti informali a base di pasta fresca che sta mietendo nuove aperture a raffica, le impastatrici sono all’interno del locale, è pur sempre un vetro, grande il più possibile, a separarle dai clienti affamati tanto allo stomaco quanto agli occhi. Per un racconto antico che diventa nuovo, nel periodo in cui nostalgia e revanscismo sono il nuovo che avanza, alle urne come a tavola. Meno veline, più sfogline. Siamo italiani, almeno in vetrina.

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